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«La pregnanza dei dati archeologici, per quanto frammentari, problematici o dispersi, restituisce senza ombra di dubbio l’importanza dell’approdo ad ovest del Golfo, senz’altro il più sicuro per fattori geoclimatici, sin dall’età romana, a partire dal periodo grossomodo coincidente con la deduzione della colonia di Luni. Ma la penetrazione romana avviene in un contesto abitativo preesistente, almeno per quanto riguarda le pendici collinari, che è in funzione del pieno III secolo a.C. come attesta il ritrovamento funerario di Pegazzano conservato al Museo Civico Archeologico, a sua volta inquadrabile nel più generale contesto della Liguria orientale. Si tratta dunque dei primi e certi sistemi abitativi delle popolazioni locali che entrano in contatto-contrasto coi Celti, gli Etruschi e poi i Romani, sviluppatisi intorno a luoghi strategici sotto il profilo ambientale, delle rotte viarie e marittime. Circa il primo, risulta essenziale la presenza abbondante delle acque e delle sorgenti, alcune allo stato di risorgiva, che non può non aver sollecitato l’immaginario delle religioni animistiche pagane. Sia la risorgiva della Sprugola, sia la polla di Cadimare, sia la sorgente ipogea dell’Acquasanta, tutte insistenti sul lato occidentale del Golfo, appaiono un ambiente ideale per la nascita di culti lustrali e/o centri termali.
Una miriade di chiese ed oratori dedicati alla Vergine connoterà la pianura occidentale nell’età cristiana, forse perpetuando il ricordo degli antichi templi (dedicati a Venere?). La sacralizzazione dei luoghi parte sempre da molto lontano e tutta la Lunigiana storica è uno specchio emblematico della persistenza dei luoghi di culto da una civiltà all’altra (si pensi, per tutti, al caso della continuità tra le statue stele e le pievi cristiane).
Gli insediamenti liguri da un lato, articolati sulle pendici collinari, probabilmente in fase di sviluppo sincrona a quella registrata nella Lunigiana orientale (IV- II secolo a.C.), la successiva presenza romana a presidio ed uso dei migliori approdi nel Golfo, a seguito del vittorioso conflitto contro i Liguri Apuani, producono quella sintomatica diarchia abitativa che connota, per tutto il medioevo ed oltre, il paesaggio costiero. (...)»
(Marzia Ratti)
Con testi di Rossana Piccioli, Ferdinando Carrozzi, Piero Pesaresi, Chiara Pignaris.
«...Il 1235 è l' anno in cui venne redatto in curia castri Sarzane l’atto che cita per la prima volta la chiesa di San Vito.
Oggi a rammentarci gli antichi insediamenti nel Golfo restano poche testimonianze. Tra queste il sarcofago datato attorno alla fine del VI secolo d.C. esposto ora al Castello di San Giorgio.
La chiesa di San Vito, gli approdi a mare, la successione dei paesi di costa e di quelli a monte mostrano il radicarsi di uno spirito plurisecolare di comunità. E Marola ha un senso molto forte, direi alto, di comunità. Ancora adesso la solidità di quella comunità - con i suoi atti, le sue tradizioni, i simboli e i luoghi - è una piacevole e rassicurante presenza rispetto alla mutevolezza sociale e anche urbana della nostra città.
Mi riesce dunque problematico, quasi doloroso, andare col pensiero ai giorni in cui Marola perse il suo mare, le sue abitudini marine, persino la sua pieve marina. Si persero allora anche professioni legate al mare, aromi, venti, riposi marini, amori davanti al mare. La nuova chiesa consacrata nel 1884 a san Vito è la conseguenza dello spostamento a monte della sede, prima nell’edificio che ospita la scuola, quello lungo la strada per Porto Venere, e quindi nella collocazione attuale. Rimase, è vero, un piccolo spiraglio a mare per consentire ai numerosi pescatori di mantenere il lavoro, le barche e gli attrezzi. E ancora oggi i marolini, non più pescatori come un tempo, hanno un approdo per le loro imbarcazioni all’interno dell’Arsenale Militare. Poca cosa rispetto agli orizzonti liberi del Golfo che si potevano godere da quell’area alla quale è toccato il poco consolante nome di “Carbonifera”.
E non stiamo parlando dell’avvio dell’Arsenale Militare ma di tempi più recenti. Infatti i lavori di costruzione delle calate Cadimare, Varicella e Marola iniziarono nel 1902 e terminarono nel 1918. I nostri nonni, dunque, conoscevano la bellezza di quei seni. Lì, sotto l’abitato di Marola, si era cominciato a edificare una scogliera per contenere la grande colmata già negli anni 1862-64. Le cronache narrano che quello fosse un fondo fangoso. E il futuro generale Carlo Barberis, al quale si devono le maggiori opere di questa zona militare, dovette fare ricorso al suo ingegno per risolvere i numerosi problemi tecnici che incontrò al punto che il suo metodo di fondazioni su fondali fangosi sperimentato alla Spezia va ormai sotto il titolo di “sistema italiano”.
A quel mare, anche se un tempo fangoso e oggi militarizzato, aspira la gente di Marola. Si comincia col riappropriarsi della memoria per tentare di riappropriarsi di ciò che è stato patrimonio della comunità.
È un processo di consapevolezza che non riguarda solo i borghi di ponente, ma tutta la città, come testimoniano questi atti, nella consapevolezza che in questa zona risiedono e si conservano molta parte delle nostre radici. L’integrità ambientale e sociale del Ponente del Golfo è dunque una missione complessiva anche nel nuovo millennio appena aperto. Nei corsi e ricorsi della storia, tra paesaggi persi e paesaggi da ricostruire, il rapporto tra Marola e il mare è la chiave stessa di sopravvivenza di un modo di essere. Marola aspira giustamente a tornare ad essere una borgata marinara, come è scritto nel cartello all’ingresso del paese. Per farlo occorre un processo di riappropriazione urbanistica. Qualcosa di più di un sogno, un obiettivo a portata di mano. Un obiettivo che le analisi storiche e urbanistiche confermano come necessario.»
(Marco Ferrari)
Con fotografie e documenti.